L’idea di contemporaneo nell’arte e la maniera figurativa sembrerebbero, a prima vista, termini antitetici, intesi a designare universi separati, non colloquianti. Ci siamo abituati oramai a pensare il “figurativo” come un’esperienza superata, conclusa. L’esemplare ricerca di Paolo Petrucci dimostra il contrario e molto altro. Affronta, infatti, temi ardui, da un lato il senso dell’immagine, percepita dagli occhi ma vista col pensiero, il tema dell’autenticità della visione, e dall’altro il significato dell’opera pittorica come atto di conoscenza critica del vero. Siamo, in genere, abituati ad assumere sotto il termine di opera contemporanea l’idea di immediatezza dei significati espressi, spesso attraverso un’astrazione, di contemporaneità tra il divenire solido del pensiero dell’autore attraverso il farsi dell’opera e la lettura o godimento che a noi viene dal rimirarla. Attribuiamo invece l’autenticità dell’immagine soltanto all’universo sensibile che ci è offerto dall’immagine fotografica o cinematografica. Ciò che è “materiale” riletto e diffuso attraverso il mezzo ottico-meccanico è lo scrigno intangibile del messaggio che ci proviene dalla realtà, diverso dalla creazione immaginifica dell’artista. Ma non è del tutto così, se l’uomo non possedesse la vista il mondo sarebbe per lui invisibile ed inesprimibile, ma saper vedere è, più di quanto non si creda: pensare, astrarre, selezionare, evidenziare. Permane l’interrogativo di come menti “costumate” a considerare come opere d’arte pienamente espressive le pellicole cinematografiche (spesso riprodotte in migliaia di copie, e frutto di un processo complesso dall’ideazione alla fruizione) sentano come centrale nelle altre arti visive, ancora oggi, il tema dell’autenticità, anzi spesso, contraddittoriamente in una era di arte collettiva, quello dell’autore.
L’arte, si sa, e la lezione degli impressionisti, compie un percorso diverso dalla fotografia, quando rappresenta il vero, coglie il divenire, realizza il “giudizio”. Questo sì, è opera di un singolo individuo. E’ questa la “materia” di Paolo Petrucci, (che trae insegnamento dal suo essere anche regista) uomo e artista fieramente contro corrente, figurativo, in una stagione di astrattismo ad ogni costo. La figura è intesa come sintonia tra processo di concepimento dell’opera, quasi fosse il dipingere, contemporaneo all’atto “divino” della “creazione” del soggetto. La pittura di Paolo Petrucci, infatti, non è un’opera poetica a sé stante. Vuol essere invece una sorta di prisma di rifrazione, di caledoscopio di significati e segni che riflettono l’immagine della natura creata, del sensibile, del patos umano. Il pensiero ed il pennello, più spesso la spatola, restituscono all’esterno, e quindi al contemporaneo, la sottile tessitura di un rapporto continuo nel tempo tra luogo, evento e memoria. Vi si avverte forte la volontà dell’artista di farsi interprete del tempo trascorso per annullarlo in una contemporaneità di immagini, differenti nella forma ma omologhe nella sostanza. Lo studio attento del soggetto coincide col progetto dell’opera, col farsi dell’opera, studiare il procedimento di formazione dell’idea-figura, reintegrarne, in parallelo, fase per fase la sequenza esecutiva e così gelosamente creare e custodire l’idea ed il messaggio, trasformare il divenire, l’istante nell’essere. Campiture di colore denso, quasi commestibile, steso sulla faesite o sulla tela, danno alla figura o al paesaggio la consistenza materiale alla quale Paolo Petrucci affida il farsi delle sue visioni. L’effetto dei piani di colore, sontuosi e tattili, sovente riflettenti e smaglianti, più di rado opachi, ma sempre, con ogni tecnica e su ogni supporto, ricchi di materia, costituisce una caratteristica ed insieme l’inconfondibile firma dell’autore. Paolo Petrucci ripercorre l’esempio platonico dell’uomo nella caverna. Quei primi pittori che alle figure rappresentate assegnavano un valore di propiziazione e pronostico attribuendo alla magia della raffigurazione il realizzarsi positivo di un avvenimento. Il mezzo è il colore che è tutto. Ogni motivo della composita e variegata inspirazione, sempre autentica, anche nel citare, è un “urlo” che si smorza trattenuto dal pudore, ma resta la forma della luce che è la materia dell’immagine. Si tratta di una ricerca lunga, costante, faticosa, condotta con tenacia “rabbiosa” per più di trenta anni, senza mai deviare, durante la quale restano nell’ispirazione molti degli “archetipi sacri” della pittura italiana. L’artista crea, ma il vocabolario è repertorio, e la cultura dell’uomo impregna il pittore.
Ed ecco i paesaggi, lo spazio della vita. Nel dettaglio forme quasi astratte, tasselli di colore, che rivelano edifici, paesi, ruderi stagliati contro un cielo infuocato o umido e nebbioso dell’alba. Da Piazza Navona “rossa”, all’isola Bisentina del lago di Bolsena, ai golfi siciliani. Dalla “violacea nostalgia” del mare del Nord al sole splendente della Spagna, fino ai Temporali ed i Fuochi (pozzi petroliferi dati alle fiamme nella guerra del Golfo), sono occasioni per rimescolare nella tavolozza di Paolo Petrucci emozioni “fragranti” ed insieme rimembranze diverse. Da Scipione al Boecklin dell’isola dei morti, ma non sono estranei il de Chirico dei primi anni e Balla. Piani tersi di colore per costruire la luce e con essa lo spazio nella colta consapevolezza che la pittura di paesaggio è nata in Italia e per prima ha propalato l’ideologia del paesaggio. Continuatore della tradizione della pittura di paesaggio, non escluse rovine, pini e cipressi, Paolo Petrucci vede Selinunte dorata e Roma rossa al tramonto. Ma non solo, Roma è anche abbracciata al “Cupolone” immerso nel cielo cinereo. Le cupole viste dal Pincio in primavera, i ponti sul Tevere smaglianti o plumbei, riecheggiano tutti i colori di Roma, tutti i colori del cielo, anche quello notturno denso di lune e di stelle. Vi si coglie il “bello” della natura che rende serene le emozioni di chi fa e di chi gode la pittura. Paolo Petrucci mira all’universale, ma sa che ogni “particolare” è interno all’universale ed a sua volta universale esso stesso, perciò si riconoscono nella sua maniera dei “topoi”, dei temi ricorrenti, quasi una sorta di categorie, di lenti per guardare l’universo.
Il mito: Dafne, Leda ed il Cigno, Apollo e Dafne, temi più volte ripresi anche a distanza di anni, rappresentano il “desiderio”, ancestrale ineludibile, che trasforma in natura l’essere umano, miracolo, mistero e, in definitiva, vita. La umana materia è resa con piani di colore assoluti (un ricordo del Piero della Leggenda della Croce?), il divenire fermato nell’attimo, è descritto nel mosaico caleidoscopico dei colori. L’episodio di Diana ed Atteone, il desiderio colpevole punito, o Ruggero che libera Angelica, fanno da ponte tra mito e pathos.
I nudi: la figura muliebre e le gambe in primo piano, nei nudi di Paolo Petrucci, sono i tentacoli di un desiderio coercitivo e irrinunciabile voluto dalla forza inarrestabile della natura e restituito in pittura con la forza irresistibile della luce. Le tentazioni, gli amplessi sono colti come atti puri, di satiresca ovvietà, il colore scuro del desiderio maschile contrasta con la luce smagliante della donna. Il contrasto dei colori, nei grovigli delle forme, costruiscono la dinamica del pathos. Abbracciare con vigore sicuro gli ardui temi essenziali dell’umana esistenza attraverso lo strumento dell’immagine, tanto più espressiva e sintetica, immaginata all’istante, ma così ardua a costruirsi, è la continua tenace fatica di Paolo Petrucci. La “parola” percepita dagli occhi ma vista col pensiero, il tema dell’autenticità della visione, da un lato, e dall’altro il significato dell’opera pittorica come atto di conoscenza critica del vero, sono le fragranti caratteristiche di un artista restio e riservato, pudico nel mettersi in mostra, ma destinato alla massima attenzione di chi sa vedere.
Arch. Ruggero Martines
Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia
Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise
Docente di Museografia e Museotecnica presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli